di Paolo Sbraga

Una delle cose che più mi colpisce riflettendo sulle conseguenze della pandemia è l’interconnessione economica tra i paesi europei in ambito turistico. Perché sì, il settore è naturalmente fatto di scambio di persone di diversa nazionalità e in questo il nostro Bel Paese è davvero avvantaggiato rispetto a tutti gli altri paesi (del mondo, aggiungerei). Ma a livello economico la situazione che si è venuta a creare ha delle peculiari relazioni che forse conoscono solo gli addetti ai lavori.

Facciamo l’esempio di Franz, un turista europeo fai-da-te (come diceva Alpitour quando cercava da sola di arginare il futuro) che decide di raggiungere Roma per un week end. Breve premessa: tutte le nazionalità che leggerete tra parentesi sono da intendersi fiscali.
Bene: la prima cosa che fa il nostro Franz è prenotare un volo, magari low-cost visto che sta solo 3 giorni. Ecco allora davanti a lui una ricca scelta di compagnie: Ryanair (Irlanda), Easyjet (Regno Unito), Vueling (Spagna), Wizz Air (Ungheria), Eurowings (Germania), Norwegian Air (Norvegia) e molte altre. Tra queste ce n’è anche una italiana, Blu-Express, che però Franz può prendere solo se parte da Tirana, Lampedusa o dalla Grecia (o da altre mete intercontinentali che non rientrano nel nostro esempio).

Arriva il momento di prenotare l’albergo e Franz vuole scegliere bene, altrimenti chi la sente Corinna, la sua ragazza? Si affida dunque ad un aggregatore: Trivago (Germania), Booking (Paesi Bassi) o al limite a Airbnb (Irlanda). E poi basta: tutto contento chiama Corinna e le comunica di aver prenotato un fine settimana da sogno nella città più bella del mondo, così finalmente smetterà di rinfacciargli che lavora troppo.

Venerdì i nostri amici arrivano a Roma, in un aeroporto a caso, e devono arrivare in centro. Molto probabilmente sceglieranno un servizio italiano: i transfer aeroportuali sono quasi tutti nostri, a prescindere che si chiamino Terravision, Bus Shuttle o Leonardo Express. Quindi tutti a pranzo: il ristorante è necessariamente italiano, nella speranza che per prenotare non abbiano usato The Fork (Francia-USA) o non vogliano farsi portare il pranzo in hotel da Glovo (Spagna).

Arriva il piatto forte: Franz sa bene che Corinna è appassionata di arte e di selfie e quindi decide di portarla a visitare Colosseo e Musei Vaticani. È la combinazione più probabile: nel 2019 le due strutture hanno staccato complessivamente 14,2 milioni di biglietti. Franz, che se potesse ci prenderebbe pure il caffè su internet, prenota una visita guidata affidandosi ad un’agenzia che organizza tour guidati presso le due mete. Sceglie una tra le compagnie principali, di quelle che si fanno pagare bene ma pensano a tutto loro: GetYourGuide (Germania), Civitatis (Spagna), City Wonders (Irlanda) e chissà quante altre. Cosa comprendono i loro pacchetti? Una visita guidata offerta da una guida turistica autorizzata (si spera con partita iva) e il biglietto di ingresso. Ma almeno gli incassi dei biglietti restano in Italia, no? Per il Colosseo sì: la biglietteria è a gestione italiana (Coop Culture) e gli incassi vanno al ministero (e vedi un po’). Per i Vaticani ovviamente no, visto che si tratta di uno stato estero (Città del Vaticano).
Da ultimo Corinna, che conosce lo spirito fanciullesco di Franz, decide di portarlo a fare un city sight tour su un bel bus scoperto. E qui rientra prepotentemente in scena l’Italia, che quando si tratta di trasporto su gomma non è seconda a nessuno (tranne alla tedesca Flixbus): City Sightseeing inaspettatamente ha sede a Cavriglia, in provincia di Arezzo. Inutile dire che è altissima la probabilità che il magnete acquistato per abbellire il frigorifero mitteleuropeo con un’icona della Città Eterna sia tra quelli prodotti in Cina.
Lasciati quindi Franz e Corinna al loro meritato fine settimana romantico, proviamo a tirare le somme.

Un sistema glocalizzato

Il settore turistico è composto da una fitta rete di interconnessioni in cui interessi economici globali trovano espressione in ambiti locali. Può sembrare un paradosso: il Colosseo è una cosa solida, fissa, statica. Sta lì da millenni. E se vuoi vedere il Colosseo devi venire a Roma e comprare il biglietto, e poi andare in un ristorante romano, dormire in un albergo romano. Tutto vero. Ma i player esteri si sono introdotti proprio dove siamo più deboli, inconsistenti: nell’intermediazione digitale. Se rileggete la storia di Franz o Corinna vi renderete conto che tutti i servizi acquistati (lo ripeto per i distratti: acquistati) da società estere sono quelli di intermediazione. I servizi romani (ma potrebbero essere espressi a Venezia, Firenze o dove preferite) sono venduti da società europee che hanno due grandi vantaggi rispetto a noi: una maturità digitale imparagonabile con quella italiana e un regime fiscale che permette loro di fare intermediazione. Ovvero di aggiungere un anello alla filiera turistica ottenendo significativi ricavi senza che questo comporti costi proibitivi per l’utente finale. Insomma, se il turismo è il petrolio d’Italia, i pozzi di estrazione sono venuti a costruirceli società con base in mezza Europa.
Ma la questione non è soltanto fiscale o digitale: la sensazione è che i servizi turistici italiani siano oggi caratterizzati da un grado di creatività e innovazione tangente a zero. Fateci caso: le società italiane a Roma si occupano di transfer, biglietterie e visite guidate e lo fanno con grande ossequio dello status quo: salvo sporadici casi, il grado di innovazione è pressoché inesistente. Ci si avvale della facile rendita di un patrimonio storico, artistico e ambientale unico al mondo, senza inventarsi granché. I centurioni fuori dal Colosseo sono probabilmente il servizio più creativo (e inesorabilmente abusivo) inventato negli ultimi due secoli.

Volare, oh oh

Io vorrei capire una cosa. Lo dico senza retorica: vorrei davvero capirla. Come è possibile che il paese che dovrebbe vivere di turismo non ha una sua compagnia aerea low cost in grado di metterlo in collegamento diretto con il suo mercato? Mi chiedo se sia corretto ritenere che la trentennale, compulsiva attenzione nei confronti di Alitalia e del suo eterno salvataggio abbia offuscato la necessità di adottare modelli di business più coerenti con le evoluzioni del mercato turistico globale. Alla luce della sterminata domanda di voli verso il nostro Paese, mi chiedo come sia possibile registrare il fallimento di tutte le compagnie italiane low cost: Airone, Eurofly, Windjet, Volareweb e – recentemente – Air Italy. Mi chiedo, infine, come sia possibile che gli altri, tutti gli altri (comprese le compagnie rumene, lituane e greche), riescano a farcela e noi no. Leggendo il breve articolo di Guido Fontanelli apparso su Panorama tre mesi fa, capisco di non essere il solo a pormi queste domande.

Perché non ci siamo?

La conclusione di tutto questo ragionamento è una domanda: perché siamo completamente assenti da alcuni segmenti della filiera turistica? Perché non siamo in grado di esprimere idee originali e chi ce l’ha fatica così tanto a metterla in pratica nell’italico suolo? Non è che mi senta particolarmente esterofilo, né d’altra parte che voglia innalzare un anacronistico grido autarchico. Mi domando però se non sia arrivato il momento – proprio ora, a bocce ferme – che il settore pubblico provi a creare le condizioni per innovare l’intermediazione, la digitalizzazione, i servizi e i trasporti turistici. Per favorire lo sviluppo di realtà innovative a beneficio di tutto il settore.
Sia chiaro: sono fermamente convinto che il turismo sia un settore principalmente privato, in cui il pubblico meno ci entra e meglio è. Però le tasse sono pubbliche. I finanziamenti nei confronti di Alitalia pure, come in generale lo sono parte dei trasporti e delle infrastrutture. La normativa che regola l’accesso alle professioni turistiche anche (e chi è del settore sa a cosa mi riferisco). Insomma: il pubblico ha le leve utili per far sì che la prossima idea declinabile in chiave turistica possa assumere la propria residenza fiscale in Italia. E contribuire al sistema Paese.

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