di Clarissa Civilini

Oggi per un omicidio si rischia l’ergastolo. Per un furto, una grossa multa pecuniaria e una reclusione che non supera i 3 anni. Anche un tempo era cosi? Le colpe può darsi, ma certo è che le pene erano piuttosto differenti…

Di seguito prendiamo in considerazione una parte del terzo libro dello statuto sublacense promulgato il 25 luglio del 1456 e rimasto in vigore fino alla rivoluzione francese. Con severe disposizioni lo statuto cercava di frenare la violenza. In quegli anni (XV Sec.) le numerose rivolte e i tanti fatti violenti (oltre a motivazioni prettamente “politiche”) condussero papa Callisto III Borgia a trasformare la badia di Subiaco in commenda cardinalizia, stabilendo così una nuova costituzione e un ricco istituto retto dal cardinale spagnolo Giovanni Torquemada (consanguineo di Tomàs de Torquemada, il primo grande inquisitore della storia) che assunse il titolo di abate commendatario. E che fu chiamato a controllare un territorio di ben ventinove parrocchie, comprendente gli attuali comuni di Camerata Vecchia, Cervara di Roma, Cerreto Laziale, Gerano, Canterano, Rocca Santo Stefano, Agosta, Marano Equo, Subiaco, Affile, Arcinazzo Romano (allora Ponza), Bellegra, Roiate, Jenne e Trevi nel Lazio.

L’abate commendatario Torquemada obbligò tutta la popolazione all’obbedienza dello statuto, con la proibizione di fare appello a quelli precedenti. Lo statuto presenta una breve introduzione nella quale si celebra l’importanza sociale della virtù della giustizia, è ripartito in tre libri e ogni libro è diviso in capitoli. Nel “de malefitiis et causis criminalibus” in esso sono indicati i crimini e le relative pene che si applicavano allora. Commettere reati in quegli anni era piuttosto comune e turbava la pace pubblica e domestica: furti incendi, tradimenti, debiti non pagati erano problemi all’ordine del giorno. Lo statuto non ha norme generali sulle pene e sui delitti, perche secondo l’uso del tempo esisteva una casistica di pene secondo i reati. Le pene presentano la condanna a morte o l’esilio, la carcerazione o la fustigazione. Era ammessa la tortura come mezzo per estorcere la confessione. Si amputava la mano a coloro che fabbricavano falsi documenti, mentre ai falsi testimoni era prevista l’amputazione della lingua (“in lingua amputatione“). La fustigazione e la lapidazione avvenivano nella pubblica piazza, dove i condannati venivano legati per i piedi nudi (“per unum diem stet nudus ligatus ad lapidem cum cathena in platea comunis“). Dura era anche la sorte dei debitori che venivano gettati in carcere fino a quando non avessero saldato il debito. Numerose erano le pene pecuniarie, che andavano quasi sempre a favore della curia. Non incorreva in nessuna pena colui che uccideva per legittima difesa. La bestemmia era punita con una multa pecuniaria più o meno grande, secondo se era diretta contro Dio, Maria o verso i Santi.

Per l’omicidio era prevista la pena capitale unita alla confisca dei beni, metà dei quali andava ai figli dell’ucciso, se li aveva, altrimenti interamente alla curia. Alla pena di morte era condannato colui che metteva a fuoco dentro Subiaco o comunque nei centri abitati, chi rapiva le persone. L’omicida che non cadeva nelle mani della giustizia era bandito da Subiaco e da tutto il territorio abbaziale. Sconti di pena erano previsti per i minori di quattordici anni, se maschi, di dodici, se femmine: in entrambi i casi incorrevano in una pena dimezzata. I reati commessi di notte venivano puniti il doppio, mentre vi era un aumento di pena nei giorni festivi: Pasqua, Natale, Assunta e San Benedetto. Era vietato ospitare o nascondere assassini, adulteri, ladri, rapinatori lungo le strade, incendiari, rapitori di donne oneste, falsari e autori di gravi delitti. Attenuazioni di pena erano previste per colui che confessava subito dopo il reato davanti al giudice, cosi per chi prima del processo si fosse riappacificato con il nemico otteneva l’intera remissione della pena. Lo statuto con le sue severe disposizioni cercava di frenare la violenza. Rimane ancora oggi un documento da studiare: non è altro che il modo di vivere nel tempo.

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