di Tatiana Procaccianti e Fabiana Tozzi

Non di solo pane vivrà l’uomo! Questo è proprio il tuo caso: meglio se accompagni quella bruschetta con un buon vino, no? Si sa che la felicità è un bicchiere di vino con un panino! Questo lo sapevano già gli antichi romani, infatti, tra i doni made in Rome potrai trovare, anche, una bottiglia che fa proprio al caso tuo.

Il vino, come l’olio, ha origini antichissime: pensa che sono state rinvenute tracce di vino databili fra il 5400 e il 5000 a.C. (un vino molto invecchiato insomma) nell’odierno Iran. È, però, fra il IX e il VII secolo a.C. che la produzione e il consumo sono aumentati: merito dei Greci che del vino hanno fatto un vero e proprio culto. Sono stati i Romani, invece, a rendere la viticultura intensiva e ad esportare la vite in zone diverse dal bacino del Mediterraneo, come la Francia e la Germania. Anche qui, quindi, tutto ciò che i Romani toccano diventa intensivo. Gli antichi romani avevano poi un grande merito, quello di fare tesoro delle esperienze precedenti: infatti, essi hanno ripreso il know how sulla viticultura da chi ne sapeva senz’altro di più, i Fenici del nord Africa e i Greci, appunto. Questi ultimi erano stanziati nel sud d’Italia, la cosiddetta Magna Grecia, già dal VII secolo a.C. Qui, a suo tempo, avevano incontrato una popolazione precedente, quella che essi stessi hanno chiamato Enotri. Il nome sembrerebbe connesso con la parola greca oinos, vino, e rendeva, quindi, il sud Italia l’Enotria, terra degli Enotri, terra di vino.

Devi sapere, quindi, che quello nella bottiglia che hai in mano non è tutto vino della loro botte: i Romani hanno ripreso, infatti, dalla viticultura greco-fenicia tre importanti pratiche: la disposizione delle piante per filari regolari (ogni 10 piedi, 3 metri), l’utilizzo degli innesti e, soprattutto, costanti potature che hanno portato ad un aumento della grandezza degli acini e quindi della quantità di vino prodotto.

Andiamo, però, al succo! Vediamo come effettivamente veniva ottenuto il vino: i grappoli, ben maturi, venivano raccolti con coltelli a forma di falce e trasportati nelle cantine con delle ceste. Qui venivano scartati i frutti acerbi o rovinati che poi sarebbero serviti per produrre il vino destinato agli schiavi.  Si procedeva, quindi, alla pigiatura dei grappoli migliori a piedi scalzi e si otteneva, così, il cosiddetto mustum calcatum, letteralmente, il mosto calpestato. Questo, poi, passava per il torchio da dove usciva il vino vero e proprio, che veniva poi conservato in grandi contenitori ceramici interrati (dolia).  Un vino, per essere pregiato, doveva invecchiare anche fino a 20/25 anni e, per farlo, doveva avere una gradazione alta; non tutti i vini, quindi, miglioravano con il tempo e alcuni dovevano essere consumati entro l’anno per non diventare acidi. Ai vini meno pregiati, prevenienti da vigneti giovani e scadenti, venivano anche aggiunti alcuni ingredienti come sale, acqua marina, resina e gesso nel tentativo di migliorarli. Una tecnica per far rendere bene anche un vino scadente era quella di mescolarlo con avanzi di vini pregiati, così da poter vendere un vino decente. Una vera e proprio sofisticazione degna delle indagini dei NAS! La qualità peggiore, però, era quella destinata agli schiavi: il vino era ottenuto da uva di scarsa qualità semplicemente aggiungendo acqua alle vinacce già pressate. Che fai? Ora non bevi? Stai tranquillo, la bottiglia che hai in mano è di ottima qualità!

 Oltre ad essere grandi produttori (miscugli a parte!), i Romani erano anche dei grandi esportatori. I vini viaggiavano in delle anfore apposite, dalla forma allungata, realizzate per essere stipate nelle navi: come ci testimoniano i vari relitti rinvenuti sui fondali marini, le anfore venivano trasportate per tutto il Mediterraneo e infine giungevano sulle tavole di tutto l’impero.

Il vero protagonista dei banchetti, infatti, era proprio il vino che accompagnava (e annaffiava) ogni portata, ma che non veniva bevuto assoluto a causa della sua alta gradazione. Per questa ragione, prima del banchetto, veniva nominato il magister bibendi, colui che doveva astenersi dal bere e doveva decidere come mescolare il vino: quest’ultimo poteva essere miscelato “a cinque” (tre parti di acqua e due di vino) ed “a tre” (due parti di acqua e una di vino) con acqua calda o fredda a seconda della stagione.

Una pratica che non poteva mancare durante un banchetto era il brindisi, tant’è che, nel II secolo d.C., l’autore latino Apuleio scrisse

«Il primo bicchiere è per la sete; il secondo, per la gioia, il terzo, per il piacere; il quarto, per la follia»

tramandandoci un classico brindisi nell’Antica Roma valido ancora oggi! Il modo di brindare, infatti, non è assolutamente cambiato nel tempo: i Romani levavano i calici per augurare salute e ogni bene ai padroni di casa e ai presenti. Le formule potevano essere molto semplici: si andava dall’incisivo chaire, corrispondente greco del nostro “alla salute!”, fino ai latini bene tibi (bene a te!) o vivas (che tu viva!). A volte, però, i brindisi potevano essere più complessi, soprattutto quelli dedicati alle donne, come ci riporta Marziale (Santire, 1, 71):

«cinque bicchieri si bevano per Levia, otto per Giustina, quattro per Lica, e quattro anche per Lide e per Ida tre. Tanti bicchieri siano per ciascuna, quante sono le lettere del nome.»

Oggi brindare per una Maria Antonietta sarebbe di certo impegnativo (almeno per il fegato)!

Il vino non si trovava, però, solo a tavola: infatti, il mulsum, il vino speziato, veniva offerto alla plebe durante gli eventi pubblici per ottenere supporto politico. Gli usi non erano, però, solo alimentari, ma anche medici: il vino veniva prescritto per curare le ferite, come bevanda nutriente, come antifebbrile, come purgante e come diuretico. Insomma, il vino stava bene in tutte le situazioni, come il prezzemolo! Veniva utilizzato da acqua ossigenata, tachipirina e anche come antidepressivo infatti, Seneca scriveva

«ogni tanto è bene arrivare fino all’ebbrezza, non perché questa ci sommerga, ma perché allenti la tensione che è in noi. L’ebbrezza scioglie le preoccupazioni, rimescola l’animo dal più profondo e, come guarisce da certe malattie, così guarisce anche dalla tristezza.»

Ora, però, tu non esagerare!

Dopo tutto questo parlare, ti interesserà più sapere che tipo di vino hai in mano. Beh, tu hai un ottimo vinum caesanum, il quale tutt’ora viene prodotto sotto il nome di Cesanese. Questo è un vino rosso coltivato nel Lazio, più precisamente nella provincia di Roma fin da tempi antichissimi. Il suo nome, infatti, deriva dalla parola latina cesae, in riferimento alle terre disboscate dagli antichi romani per fare spazio alle vigne proprio nella zona in questione. Quindi dimentica correzioni al gesso, vinacce annacquate e uva scadente e goditi questo buon bicchiere di vino. Chaire! Alla salute!

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